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Una recensione della docufiction "Cina" di Maurizio D'Anna (da un articolo di Ultim'ora del 28.02.09

Fare cinema - M. Mazzotta

28 febbraio 2009

Abbiamo già detto che per fare un film, che sia riconosciuto come tale da un pubblico e da chi se ne intende, è necessario un cervello che pensi e che sappia usare penna, telecamera, software. Idee e scrittura del film, uso della telecamera e gestione del set cinematografico, uso di un software per il montaggio. I tre momenti creativi nella produzione di un film. Due in più rispetto per esempio, alla realizzazione di un romanzo, se consideriamo la complessità del set e poi la fase del montaggio, che è come riscrivere il film, questa volta direttamente con le immagini. Confrontiamo il processo creativo del romanzo con quello del film. Romanzo e film sono simili: raccontano storie. Simili per via degli aspetti cognitivi legati alla narratività. Simile è il primo momento creativo, quello dell’idea e dello sviluppo dell’idea in storia da narrare. Non è un caso che produttori e registi, sensibili alle suggestioni di romanzi e racconti, si rivolgano agli scrittori. E il soggetto di un film non è altro che un racconto scritto già pensando che qualcuno ne farà un film. Quindi esplosione delle idee in eventi che le concretizzino e definizione di una struttura per mantenere una coerenza interna dei fatti e delle idee, per suggerire un ritmo nei tempi di svolgimento delle vicende. E il ritmo è in funzione di ciò che si vuole provocare nel lettore o nello spettatore: attese, emozioni, riflessioni. Romanzo e film: lo scrittore narra con le parole; lo sceneggiatore, anche se usa parole, descrive immagini. A volte di uno scrittore si dice che la sua scrittura è filmica, si intende dire che è visiva. La sceneggiatura è il film scritto sulla carta e lo sceneggiatore è il ponte tra i due linguaggi. Se ha il compito di sceneggiare un romanzo di un altro autore interpreta il linguaggio letterario e lo traduce in linguaggio filmico, sia pure in uno pseudo linguaggio filmico in quanto non sono vere immagini, ma immagini descritte con parole, e per fare questo deve avere competenze nell’uno e nell’altro linguaggio. Faccio un esempio: di fronte a un racconto introspettivo che esprime emozioni e riflessioni dei personaggi lo sceneggiatore affronta un problema non facile, quello di tradurre in immagini queste emozioni e riflessioni espresse verbalmente. Nella sceneggiatura c’è poi un aspetto squisitamente letterario rappresentato dalla drammatizzazione verbale, cioè i dialoghi. Al di là delle differenze che soprattutto oggi possono sussistere tra i dialoghi di un romanzo e quelli di un film, gli uni e gli altri sono sempre e comunque linguaggio letterario. E’ terminato questo primo momento creativo, il risultato però è a vantaggio dello scrittore, perché il romanzo con la stesura definitiva è compiuto, mentre la sceneggiatura con la stesura definitiva rimane un progetto, una ipotesi di film, per quanto possa essere precisata non è mai il film. Il film ha bisogno di altri due momenti creativi. Vale la pena soffermarsi ancora su questo primo momento e prendo in esame un caso estremo, un documentario che ho visto in questi giorni, "Cina" di Maurizio D’Anna. Documentari, fiction, docufiction, cioè documentari che presentano sia documenti reali sia “documenti” ricostruiti, quindi finti. Tutti hanno in comune il narrare storie, che siano vere o inventate o per metà vere e per metà inventate. E dunque l’autore ha le competenze sopra citate. Conosco D’Anna perché ha frequentato un mio laboratorio di cinema col quale focalizzavo l’attenzione sulla scrittura del film. Avevo notato in lui oltre a certe capacità narrative anche il gusto di raccontare storie. Insomma, che sapeva raccontare e gli piaceva. Ho pensato che la sua vocazione fosse quella di scrivere. Quando mi ha parlato di un lavoro che aveva fatto sulla Cina, ovviamente ha svegliato il mio interesse. L’aspettativa era alta e quando ho visto e rivisto il film mi sono soffermato sul significato, sulla struttura dell’insieme, sul ritmo. Non sono rimasto deluso. Sono convinto che D’Anna può fare quello che vuole: scrivere o realizzare film. "Cina" nasce come reportage fotografico, quindi da una concezione fotografica non filmica, ma come prodotto finito è un film. Reportage: dunque documentario, e ci sono inserti di sequenze filmiche tratte da film: dunque una parte è fiction. Ho detto che è un caso estremo, intendevo non solo perché è un “documentario di fotografie” , ma perché probabilmente proprio per questo non c’è a monte una sceneggiatura nel vero senso della parola, ma è come se ci fosse. D’Anna ha utilizzato quattro tipi di passaggi tra un’inquadratura e l’altra: dissolvenze lunghe e dissolvenze brevi, ritmo lento per la Cina del passato tuttora presente, e meno lento per la campagna e la vita contadina; stacchi netti su cui ci si sofferma per rappresentare immagini del potere indiscusso, per la teatralità della cultura, e stacchi rapidi, immagini che si accavallano a dimostrare la frenesia della vita contemporanea, della città. Oltre a questi passaggi (transizioni), D’Anna ha usato effetti di software che creano proprio movimento. Ci sono poi sequenze di pochi secondi tratte da Lanterne rosse, Addio mia concubina, Sorgo rosso. Il movimento creato al computer si confonde con quello delle sequenze filmiche. Non si distinguono le foto dalle sequenze. Non ce ne accorgiamo a meno che non conosciamo bene i film citati, anche per questo Cina si presenta come un film. Una narrazione che rivela una struttura, non c’è casualità, ogni cosa che si dice e si mostra è studiata, sia essa una visione evolutiva: dalla società contadina al consumismo; sia una visione di opposti: lentezza-velocità, passato-presente, imperialismo-comunismo, religiosità-laicità. C’è chiara consapevolezza di ciò che si sta illustrando. Questo significa saper raccontare.

http://www.mauriziomazzotta.it/

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